Il Palazzo del Bargello

Il Palazzo del Bargello racchiude nelle sue forme severe e minacciose, simili a quelle di Palazzo della Signoria, gli squarci più raccapriccianti della storia di Firenze, a dimostrazione del fatto che non sempre in città si viveva all’insegna dell’armonia e della bellezza che è riflessa nelle architetture o nei quadri del Botticelli.

ll Palazzo fu costruito a metà del Duecento, quando finalmente i guelfi (i piccoli mercanti in ascesa) tolsero il potere ai ghibellini (la ricca nobiltà), per ospitarvi il più importante magistrato, il podestà.

Le leggi stabilivano che questo fosse uno straniero: doveva venire da una località lontana almeno cinquanta miglia e doveva durare in carica soltanto un anno. Tutto ciò per avere un giudice obiettivo che non parteggiasse per l’una o l’altra famiglia o fazione. Tentativo mal riuscito, se solo quarant’ anni dopo, gli operai salariati,(il così detto “popolo minuto”), invasero il palazzo per protestare contro le ingiustizie subite; da questo episodio scaturì una riforma dell’ amministrazione che fu quanto di più simile a una costituzione si sia mai avuto a Firenze: gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella, che vietavano alle grandi famiglie di accedere alla cosa pubblica ed istituivano la figura del Gonfaloniere di Giustizia, il magistrato incaricato di dirigere il collegio dei Priori, guidare la milizia e difendere dal “popolo grasso”(i ricchi mercanti) gli interessi delle classi meno agiate.

Questo tipo di governo rimarrà, almeno formalmente e salvo brevi intervalli come la Signoria dell’Angioino Carlo di Calabria (1325-28) o la tirannia di Gualtiero di Brienne duca d’Atene (1342), in vigore fino alla presa di potere da parte della famiglia Medici. La famiglia Medici trasportò a Palazzo Vecchio funzioni e rappresentanze politiche, così che il Bargello fino al 1574, divenne sede del Consiglio di Giustizia e dei Giudici di Ruota, una sorta di tribunale.

Fino a qui, i secoli di maggior splendore del Palazzo, in cui questo fu il simbolo dei tentativi dei cittadini meno facoltosi di non essere più alla mercè del potere dei più nobili, anche se dagli statuti dei podestà giunti fino a noi si rileva che la vita a Firenze non doveva essere molto allegra. Ad esempio se dopo il coprifuoco un servo veniva trovato armato senza il proprio padrone rischiava di perdere una mano, gli innamorati non potevano fare le serenate alle proprie belle, pena una forte multa e la confisca dello strumento…tutto questo senza considerare alcune curiose disposizioni, come quella che obbligava gli abitanti di un piccolo paesino nella campagna fiorentina a rifornire di fichi una volta l’anno il consiglio generale del podestà, composto di 390 membri.

Ma le cose peggiorarono decisamente dal 1574, sotto il principato di Cosimo I, quando il Palazzo del Bargello divenne una squallida prigione. Vi risiedevano i condannati a morte e le Guardie: il Palazzo prende il nome proprio dal Capo delle Guardie di Polizia (il Bargello) che arrestava e interrogava i delinquenti . Da allora il Palazzo fu notevolmente modificato, sia all’interno, dove gli ampi spazi furono suddivisi e i loggiati chiusi per ricavare un maggior numero di celle, e all’esterno, dove le sontuose e ampie finestre furono chiuse e sostituite con piccole fessure nel muro. I prigionieri venivano torturati e poi giustiziati nel cortile,con pratiche atroci cadenzate dai rintocchi delle campane della torre, la Volognana , e descritte con sadico compiacimento in resoconti d’epoca.

Il clima che si respirava a Firenze doveva essere di terrore in questi anni, e ancora di più quando, e non era raro, sul ceppo che si trovava fra via del Proconsolo e via della Vigna Vecchia, venivano esposte le teste dei giustiziati come ammonimento ai cittadini. Altre volte, sempre a mo’ di monito, i corpi venivano attaccati fuori delle finestre del palazzo e se il delitto commesso era particolarmente efferato l’immagine del delinquente veniva dipinta sui muri della torre del Bargello o su quelli del cortile interno.

Talvolta, sotto queste immagini si scrivevano versi infamanti, come ad esempio quelli sotto il ritratto di un traditore impiccato, incatenato e circondato da diavoli:

“Superbo, avaro, traditor, bugiardo

Lussurioso, ingrato e pien d’inganni

Son Bonaccorso di Lapo Giovanni.”

Del resto bastava poco per essere etichettati in questo modo , soprattutto se non si era facoltosi o protetti da qualche personaggio importante; a volte, nei documenti in cui è registrata la morte dei prigionieri politici non è indicata alcuna motivazione specifica, ma solo formule generiche, come “per causa di stato”, “ per disobbedienza alla Repubblica” o addirittura “per ragioni ignote”.

Tutto questo ebbe fine, con grande sollievo dei cittadini, quando il granduca Pietro Leopoldo nel 1786 abolì la pena capitale e fece bruciare le macchine di tortura. Il Bargello continuò ad essere un carcere, fino alla metà dell’ Ottocento, quando, nel clima di rivalutazione degli ideali e delle testimonianze del Medioevo, si decise di restaurarlo e i prigionieri furono trasferiti definitivamente nel carcere delle Murate. L’architetto Francesco Mazzei cercò di ricreare le architetture originali del Bargello eliminando ogni cosa che potesse ricordare le crudeltà che in questi ambienti furono commesse: riaprì i loggiati, come erano in origine , eliminò le anguste celle, ricercò i primitivi ornamenti architettonici e le pareti furono riempite di decorazioni pittoriche medievaleggianti.

Da allora si decise che il Bargello ospitasse un Museo dedicato alla storia e alle arti della Toscana. Nel 1865 il Bargello fu inaugurato come Museo Nazionale, con celebrazioni in onore di Dante, a cui parteciparono privati collezionisti che decisero di offrire vari oggetti in deposito per contribuire alla sua formazione.